MARZABOTTO

La strage di Marzabotto (dal maggiore dei comuni colpiti) o più correttamente eccidio di Monte Sole fu un insieme di stragi compiute dalle truppe nazifasciste in Italia tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944, nel territorio dei comuni di Marzabotto, Grizzana Morandi e Monzuno che comprendono le pendici di Monte Sole in provincia di Bologna. Fu un crimine contro l'umanità e uno dei più gravi crimini di guerra compiuti contro la popolazione civile perpetrati dalle SS in Europa occidentale durante la seconda guerra mondiale. Le vittime, confrontando i dati dell'anagrafe, furono 1830 (a cui si riferisce la medaglia d'oro del 1948).

Nel 1994 il Comitato Regionale per le Onoranze ai Caduti di Marzabotto, fondandosi soprattutto sui dati delle anagrafi ricostruite dei Comuni di Marzabotto, Grizzana Morandi e Monzuno, ha dimostrato come il dato relativo ai caduti vada messo in relazione a un più ampio territorio. Infatti gli eccidi compiuti da nazisti colpirono i tre comuni durante l'estate-autunno 1944 e causarono complessivamente la morte accertata di 955 persone: in particolare nella strage nazista del 29 settembre - 5 ottobre 1944 furono comprovate 775 morti. Marzabotto, Monzuno e Grizzana Morandi ebbero poi anche 721 morti per cause varie di guerra; da qui il dato complessivo accertato dal Comitato Onoranze: 1676 decessi per mano di nazisti e fascisti e per cause di guerra.

SANT'ANNA DI STAZZEMA

All'inizio dell'agosto 1944 Sant'Anna di Stazzema era stata qualificata dal comando tedesco come "zona bianca", ossia una località adatta ad accogliere All'inizio sfollati: per questo la popolazione, in quell'estate, aveva superato le mille unità. Inoltre, sempre in quei giorni, i partigiani avevano abbandonato la zona senza aver svolto operazioni militari di particolare entità contro i tedeschi. Nonostante ciò, all'alba del 12 agosto 1944, tre reparti di SS salirono a Sant'Anna, mentre un quarto chiudeva ogni via di fuga a valle sopra il paese di Valdicastello. Alle sette il paese era circondato. Quando le SS giunsero a Sant'Anna, gli uomini del paese si rifugiarono nei boschi per non essere deportati, mentre donne, vecchi e bambini, sicuri che nulla sarebbe capitato loro in quanto civili inermi, restarono nelle loro case.

In poco più di mezza giornata vennero uccisi centinaia di civili[8], di cui solo 350 poterono essere in seguito identificate; tra le vittime 65 erano bambini minori di 10 anni di età[9]. Dai documenti tedeschi peraltro non è facile ricostruire con precisione gli eventi: in data 12 agosto 1944, il comando della 14ª Armata tedesca comunicò l'effettuazione con pieno successo di una "operazione contro le bande" da parte di reparti della 16. SS-Panzergrenadier-Division Reichsführer SS nella "zona 183", dove si trova il territorio del comune di S. Anna di Stazzema; l'ufficio informazioni del comando tedesco affermò che nell'operazione 270 "banditi" erano stati uccisi, 68 presi prigionieri e 208 "uomini sospetti" assegnati al lavoro coatto[10]. Una successiva comunicazione dello stesso ufficio in data 13 agosto precisò che "altri 353 civili sospettati di connivenza con le bande" erano stati catturati, di cui 209 trasferiti nel campo di raccolta di Lucca[10].

I nazisti rastrellarono i civili, li chiusero nelle stalle o nelle cucine delle case, li uccisero con colpi di mitra, bombe a mano, colpi di rivoltella e altre modalità di stampo terroristico. La vittima più giovane, Anna Pardini, aveva solo 20 giorni (23 luglio-12 agosto 1944). Gravemente ferita, la rinvenne agonizzante la sorella maggiore Cesira (Medaglia d’Oro al Merito Civile) miracolosamente superstite, tra le braccia della madre ormai morta. Morì pochi giorni dopo nell'ospedale di Valdicastello. Infine, incendi appiccati a più riprese causarono ulteriori danni a cose e persone.

Non si trattò di rappresaglia (ovvero di un crimine compiuto in risposta a una determinata azione del nemico): come è emerso dalle indagini della procura militare di La Spezia, infatti, si trattò di un atto terroristico premeditato e curato in ogni dettaglio per annientare la volontà della popolazione, soggiogandola grazie al terrore. L'obiettivo era quello di distruggere il paese e sterminare la popolazione per rompere ogni collegamento fra i civili e le formazioni partigiane presenti nella zona.

La ricostruzione degli avvenimenti, l'attribuzione delle responsabilità e le motivazioni che hanno originato l'Eccidio sono state possibili grazie al processo svoltosi al Tribunale militare di La Spezia, conclusosi nel 2005 con la condanna all'ergastolo per dieci SS colpevoli del massacro; sentenza confermata in Appello nel 2006 e ratificata in Cassazione nel 2007. Nella prima fase processuale si è svolto, grazie al pubblico ministero Marco De Paolis, un imponente lavoro investigativo, cui sono seguite le testimonianze in aula di superstiti, di periti storici e persino di due SS appartenute al battaglione che massacrò centinaia di persone a Sant'Anna. Fondamentale, nel 1994, anche la scoperta avvenuta a Roma, negli scantinati di Palazzo Cesi-Gaddi, di un armadio chiuso e girato con le ante verso il muro, ribattezzato poi armadio della Vergogna, poiché nascondeva da oltre 40 anni documenti che sarebbero risultati fondamentali ai fini di una ricerca della verità storica e giudiziaria sulle stragi nazifasciste in Italia nel secondo dopoguerra.

Prima dell'eccidio di Sant'Anna di Stazzema, nel giugno dello stesso anno, SS tedesche, affiancate da reparti della X MAS, massacrarono 72 persone a Forno. Il 19 agosto, varcate le Apuane, le SS si spinsero nel comune di Fivizzano (Massa Carrara), seminando la morte fra le popolazioni inermi dei villaggi di Valla, Bardine e Vinca,nel comune di Fivizzano . Nel giro di cinque giorni uccisero oltre 340 persone, mitragliate, impiccate, financo bruciate con i lanciafiamme.

Nella prima metà di settembre, con il massacro di 33 civili a Pioppetti di Montemagno, in comune di Camaiore (Lucca), i reparti delle SS portarono avanti la loro opera nella provincia di Massa Carrara. Sul fiume Frigido furono fucilati 108 detenuti del campo di concentramento di Mezzano (Lucca), mentre a Bergiola i nazisti fecero 72 vittime. Avrebbero poi continuato la strage con il massacro di Marzabotto.


ECCIDIO DI VINCA

Il 18 agosto l'assalto a un automezzo tedesco, lungo la strada Monzone-Vinca, causò l'uccisione di un ufficiale tedesco e fu il pretesto per una rappresaglia, nella strategia generale di tenere sotto controllo con il terrore la popolazione civile[1].

Il 24 agosto 1944 oltre cinquanta automezzi carichi di soldati tedeschi e militi fascisti salirono verso il paese di Vinca, toccando Equi Terme, Monzone altre frazioni limitrofe. La zona era conosciuta per essere sotto il controllo dei partigiani, essendo i vari valichi spesso percorsi dalle staffette che permettevano il collegamento con le squadre presenti sugli altri versanti[2].

I soldati dell'Aufklärungs-Abteilung 16 ("Reparto esplorante 16") comandato dal maggiore Walter Reder(dipendente dalla 16. SS-Panzergrenadier-Division "Reichsführer-SS") arrivarono al paese di Vinca nella prima mattinata del 24 agosto, salendo da Monzone, mentre altre colonne accerchiarono la zona dalle valli sul versante della Garfagnana e da quello di Carrara[2]. Un centinaio di brigatisti neri di Carrara guidarono le SS lungo i sentieri nei boschi limitrofi per trovare la popolazione civile, che vi si era rifugiata all'arrivo dei convogli; difatti, la maggior parte delle vittime si rinvenne fuori dall'abitato[1].

Una volta bloccato l'accesso al villaggio, i Nazifascisti iniziarono a uccidere gli abitanti rimasti (quasi tutti vecchi ed invalidi poiché chi poteva era fuggito nei boschi) e a saccheggiare e bruciare le case. A sera, rientrarono a valle[2].

Il giorno seguente, molti degli abitanti che erano riusciti a rifugiarsi altrove tornarono in paese per cercare cibo, seppellire i morti e salvare quanto potevano dalle case in fiamme; tuttavia, vennero colti di sorpresa dall'improvviso ritorno dei Nazifascisti, che fecero ancora più vittime del giorno precedente ed estesero il rastrellamento a tutte le zone vicine[1].

Le vittime accertate furono 173: molti cadaveri vennero rinvenuti nudi, decapitati o impalati[2], compreso un feto strappato al ventre della madre uccisa[1]. Alcune testimonianze riportarono che gli aguzzini avevano un organetto che facevano suonare mentre uccidevano passando di casa in casa, dettaglio questo comune ad altre stragi perpetrate in zona[1].


ECCIDIO DI BOVES

Nel paese di Boves, situato in provincia di Cuneo, si costituisce una delle prime formazioni partigiane italiane: un reparto di militari italiani, comandati dall'ufficiale Ignazio Vian, dopo l'8 settembre, si rifugia sulle montagne ed inizia una azione di resistenza contro le truppe tedesche. La domenica 19 settembre un gruppo di partigiani sceso in paese a far provviste si imbatte in una macchina con a bordo due soldati tedeschi, catturandoli senza troppe difficoltà e conducendoli prigionieri in montagna. I due facevano parte della divisione SS Leibstandarte "Adolf Hitler", mentre sono già in arrivo da Cuneo mezzi e militari che attaccano le postazioni partigiane.

Nello scontro muore un soldato tedesco, il cui corpo viene abbandonato dai compagni in ritirata. Le SS, comandate dall'Oberführer Theodor Wisch e dal Sturmbannführer Joachim Peiper, occupano allora Boves, e convocano immediatamente il parroco, Don Giuseppe Bernardi, e il commissario della prefettura. Non trovando traccia di quest'ultimo, il suo posto viene preso dal bovesano Antonio Vassallo. Ai due viene intimato di organizzare un'ambasceria presso i partigiani, chiedendo la restituzione degli ostaggi, pena la rappresaglia su Boves.

Il parroco chiede al comandante tedesco di scrivere su un pezzo di carta che avrebbe risparmiato il paese se l'ambasceria fosse andata a buon fine. Ma il comandante risponde che non ce n'era bisogno e che la parola di un tedesco valeva più di cento firme di italiani. Con una macchina ed una bandiera bianca don Bernardi e Vassallo risalgono la valle, superando vari posti di blocco tedeschi, fino a raggiungere il luogo divenuto base dei partigiani. Dopo una lunga trattativa, pur col dubbio di cedere l'unica garanzia contro la rappresaglia tedesca, i partigiani riconsegnano gli ostaggi con tutta l'attrezzatura e anche la loro macchina. Al ritorno in paese del parroco e del commissario con i due ostaggi e, tra l'altro, il corpo del tedesco caduto in battaglia, le SS danno inizio all'eccidio.

A Boves molti sono fuggiti, in campagna, nelle ore e nei giorni precedenti, è rimasto principalmente chi non era in grado: anziani, invalidi, donne e bambini. Le SS incendiano il paese, circa 350 case la cifra ufficiale, e uccidono 25 persone compresi il parroco don Bernardi e Vassallo i quali, addirittura, vengono bruciati vivi. A loro oggi sono intitolati la Casa don Bernardi di Boves, la scuola media, due strade nel concentrico. Anche il vicecurato don Mario Ghibaudo di appena 23 anni verrà ucciso mentre aiuta vecchi e bambini a fuggire e nell'intento di dare l'assoluzione ad un anziano mentre sta morendo colpito da un tedesco. Quello di Boves è stato uno dei primissimi episodi del sistema repressivo tedesco che prevedeva azioni contro la popolazione civile in risposta alle azioni partigiane e dei militari italiani.

Il secondo eccidio

Tra il 1943 ed il 1944 la città subì una seconda ondata di violenze; in questo caso, l'esercito tedesco attuò dei rastrellamenti nella zona montana di Boves per coprire la propria ritirata ed evitare i "colpi" dei gruppi partigiani presenti in zona. Il paese, soprattutto nelle frazioni montane, viene di nuovo dato alle fiamme; i morti sono 59, tra civili e partigiani.