SEVERINO SPACCATROSI

di MAURIZIO FERRARA

La prima volta che ho visto dei comunisti fu nel 1940 in un aula del Tribunale Speciale. Studente del primo anno di legge, portavo la borsa d'avvocato liberale di mio La padre, difensore di uno dei fratelli Amendola, Pietro. Nel gruppo dei comunisti imputati c'erano compagni che, poi, divennero per me familiari e importanti come fratelli maggiori: Lucio Lombardo Radice, Aldo Natoli, Giulio Spallone, Bruno Corbi, Amiconi, Vidimari. La seconda volta che incontrai i comunisti "veri" fu nei Castelli Romani, dopo l'8 settembre 1943. Questi comunisti veri - Spaccatrosi, Capogrossi, De Santis, e tanti altri - erano assai diversi dai miei amici di Roma, tutti studenti antifascisti e borghesissimi di gusti e di famiglia, oscillanti fra Croce e Marx, fra professione libera e "milizia rivoluzionaria", come la si chiamava allora. I comunisti dei Castelli del 1943 erano, innanzitutto, tutti proletari autentici: contadini poveri, braccianti, fabbri, muratori, lavoratori artigiani. In secondo luogo erano proletari "organizzati", secondo regole, discipline, gerarchie e moralità di ferro. E in quanto alle idee, erano molto nette e giacobine, senza troppe sfumature; e tutte dentro un istintiva ottica di classe, sorretta dalla cultura politica del mondo comunista del tempo, maturata nelle "università" delle carceri (frequentate da molti comunisti "castellani") e nei dibattiti - finché vi furono - della III Internazionale e della emigrazione politica antifascista. C'era spazio, dentro quell'ottica rigida, puramente classista, per la manovra politica oltreché per la proclamazione ideologica? Severino Spaccatrosi ci testimonia di si. E' lui - uomo di classe, quant'altri mai - a raccontarci che quando il 26 luglio 1943 il direttore del carcere di Pianosa comunicò ai comunisti l'arresto di Mussolini, dopo che uno dei reclusi si fu sfogato scrivendo su una parete, davanti al direttore allibito, la scritta "Viva il comunismo", ce ne fu un altro "Minio Enrico, molto piò intelligente e abile", che sulla medesima parete scrisse col carbone la scritta "Viva l'Italia libera", che da quel momento rappresenterà per noi la direzione strategica. Severino Spaccatrosi — e questi che leggerete sono i suoi ricordi — fu uno di quei proletari italiani che negli anni ‘20 si schierarono con il partito comunista sconfitto contro il fascismo vincitore. Basterebbe questo per trovare elementi di verità, nell’uso del termine “eroico” a proposito di militanti comunisti della generazione di Spaccatrosi. Una generazione troppo giovane per partecipare alla “fondazione” nel 1921 ma che volle vivere il suo impegno comunista e antifascista a qualsiasi costo, scegliendo di restare dalla parte del comunismo comunque e dovunque, nell’esilio piò duro e ingrato o in patria dentro una cella. Spaccatrosi conobbe l’una e l’altra esperienza. Nel 1931, a 22 anni, quando già alternava da 3-4 anni il lavoro di lavorante sarto, alla cospirazione venne “reclutato” e catapultato da Albano a Parigi come “funzionario”a tempo pieno, da Giancarlo Pajetta, non ancora ventenne. Nel settembre 1934, dopo 3 anni di va e vieni in missione in tutta Italia, fu arrestato a Milano, condannato a 20 anni di reclusione. « State tranquilli — scrisse ai genitori — di questi 20 anni una parte me la farò io, un'altra parte loro ». Sarà utile a tutti, accanto a ricordi di altri militanti di quella generazione e di quella tempra, aggiungere nella propria biblioteca personale — o in quella della propria sezione — questo volume, curato e presentato da un giovane dirigente della Federazione dei Castelli, il compagno Magni. Sarà utile per sapere (se non si sa), o per ricordare (se si dimentica). Ma credo che la utilità sarà certa anche per chi ama fare opera di storico. Leggere questi ricordi, che abbracciano un arco di anni che va dal 1924 al 1944, è come ascoltare la registrazione di una lunga relazione da parte di un protagonista senza molta istruzione e molti galloni, è vero, ma con molte cose da dire su tanti temi. Innanzitutto sul o mondo “castellano", tra Albano, Genzano, Ariccia e la piana Pontina fino al mare, negli anni del fascismo vincente. Poi sul mondo di chi tenne duro, di chi si appartò, di chi tradì. C’è poi, la fredda determinazione di stare in carcere dominandolo e usandolo come occasione per crescere, studiare e capire sempre meglio come stanno le cose e che fare per cambiarle. Infine c’è in questi ricordi il ritorno a casa, dopo quasi dieci anni di galera e la ripresa immediata della lotta cospirativa, questa volta armata, contro i tedeschi, sulle strade maestre, i vicoli, le vigne di Albano, Genzano, Ariccia.


FERRANDO AGOSTINO

LA MIA VITA PER LA LIBERTÀ Racconto di un ragazzo partigiano

Mi chiamo Ferrando Agostino, sono nato ad Ovada nel settembre 1924 e sono stato partigiano nella Brigata Autonoma Alessandria con il nome di battaglia "7 Novembre" . Sono diventato partigiano all'età di 19 anni perché non sopportavo il fascismo e non volevo restare passivo agli avvenimenti della guerra: pertanto decisi di mettere in gioco la mia vita per la libertà aderendo alla Resistenza. "7 Novembre" in una foto subito dopo la liberazione Ho partecipato a tante azioni rischiose che ci vorrebbe un libro per raccontarle; ho visto tutti gli orrori della guerra ma, tra tutti, voglio raccontare come ho vissuto il giorno del rastrellamento della Benedicta avvenuto il 6 aprile 1944. La cascina della Benedicta prima del rastrellamento Per inquadrare meglio l'avvenimento, cito alcuni brani tratti da documenti e ricostruzioni storiche: "Nella zona appenninica a cavallo fra la provincia di Genova e quella di Alessandria, all'inizio del 1944 operavano ed erano in via di completamento principalmente due reparti partigiani: la "Brigata Autonoma Alessandria", composta da circa 200 elementi al comando del Capitano Gian Carlo Odino, divisa in tre battaglioni con sede di comando presso Bosio, e la "3° Brigata Garibaldi Liguria", comandata da "Ettore" Tosi Edmondo, composta da sette distaccamenti, forti di più di 400 uomini, oltre a un distaccamento reclute, dislocati nei casali intorno al Monte Tobbio. L'intendenza era situata nell'ex convento della Benedicta, ai tempi adibita a cascina." "Il rastrellamento iniziò alle quattro di mattina del 6 aprile, giovedì santo. All'operazione partecipavano alcune migliaia di uomini, per la maggior parte tedeschi affiancati da quattro compagnie della GNR (due di Alessandria e due di Genova) e da un reparto del reggimento di bersaglieri di stanza a Bolzaneto, tutti al comando dei colonnello tedesco Rohr. Il grosso delle truppe venne impiegato a presidiare le località di fondovalle: soltanto circa 3000 tedeschi - Alpenjäger e gendarmeria - salirono sull'altipiano per ripulirlo dei «ribelli». Il loro armamento era imponente: mitragliere pesanti, mortai, lanciafiamme, autoblindo, carri cingolati, con un gruppo d'artiglieria da montagna. C'era persino un aereo Cicogna (Fieseler Fi 156) che, levatasi dal campo di Novi, guidava la marcia delle colonne segnalando la presenza dei «fuorilegge» sui prati ancora brulli." Aereo da ricognizione Fieseler Fi 156- Storch (Cicogna) Il giorno precedente il rastrellamento, anche se dentro di me c'era il sentore di una imminente rappresaglia dei tedeschi, la mia giornata iniziò normalmente: ero già un partigiano esperto e, anche se avevo solo 19 anni, ero comandante di una squadra di 6 uomini. Dopo la consueta colazione a base di "pane e basta", ci organizzammo per la giornata e, poiché c'erano stati movimenti dei badogliani nelle zone circostanti, allora Boro, il mio comandante slavo, mi ordinò di pattugliare la zona che conoscevo bene fino a Tagliolo Monferrato: non ho mai saputo se lo avesse fatto per evitarmi il rastrellamento. Comunque io percorsi tutta la strada e, non trovando segni di forze nemiche, ritornai al campo base dicendo a Boro: "Tutto tranquillo!". Il giorno 6, all'alba sentii i primi colpi dei tedeschi: lancio di bombe a mano, spari e avanzamento; poi di nuovo lancio di bombe, spari e così via. Ci accorgemmo di essere accerchiati, inferiori come numero di uomini ed armi e che inesorabilmente avremmo perso la battaglia. Inoltre, i tedeschi avevano vigliaccamente messo davanti a loro tutta la popolazione della zona, anziani e donne prelevati dalle loro case con la forza, in modo da ostacolare la nostra azione. Perciò, per non uccidere i civili, togliemmo le bombe che erano state sistemate nei sentieri e dopo fu dato l'ordine di disperderci. In quel momento io senti la responsabilità dei miei uomini e gli dissi: "datemi tutti i caricatori degli sten e correte più che potete: io vi copro!". Cercai rifugio dietro un grossa roccia e sparai tutti i colpi che avevo; poi iniziai a correre verso valle; le pallottole mi fischiavano vicino alle orecchie ma ebbi la fortuna di arrivare sull'orlo di un dirupo; non ci pensai due volte a scendere quella costa di terra e sassi; mano a mano che scendevo le pietre che franavano diventarono più pericolose delle pallottole; poi arrivai in fondo e attraversai un campo con delle piante; i tedeschi ormai sparavano dall'alto in basso e quindi con meno precisione; una grossa pianta mi protesse e fortunatamente fui colpito solo di striscio ad una gamba ma una pietra mi spacco il labbro ed ero tutto insanguinato dai rovi e dai rami che avevo scontrato nella mia corsa; passai davanti a una casa e la donna che mi vide scappo via alla vista di tutto quel sangue. Quindi mi ritrovai nella collina opposta e quasi ci arrivai prima dei miei uomini: in quei momenti si fanno certe cose che ciascuno di noi a mente fredda non farebbe mai e poi mai. Sulla strada che ci portava alla salvezza incontrammo altri partigiani e gli suggerimmo la giusta via. Tuttavia, quando passai davanti ad una cascina dove abitavano dei conoscenti non fui ascoltato: "avanti scappate gente che arrivano i tedeschi!" e loro: "noi siamo a casa nostra, non abbiamo fatto niente e restiamo qui". Purtroppo, due giorni dopo, venni a sapere che facevano parte delle 147 persone fucilate dai tedeschi: la guerra è anche questo ed è per questo che la resistenza è un fatto storico che non deve e non dovrà mai essere dimenticato.

"7 Novembre" foto subito dopo la liberazione

Nel primo dopoguerra "7 Novembre" è stato chiamato a fare la scorta a Togliatti, a Longo e al mitico partigiano "Valerio", il giustiziere di Mussolini. Qui lo vediamo al Senato della Repubblica dove si riconoscono anche: da destra il terzo, con baffi, "Valerio", poi L. Longo, con abito scuro

PIER0 CALAMANDREI

Origini e formazione

Allievo del giurista Carlo Lessona[1] si laureò in Giurisprudenza all'Università di Pisa nel 1912. Si trasferì quindi a Roma dove dal dicembre 1914 iniziò a frequentare Giuseppe Chiovenda[1] e partecipò a vari concorsi universitari finché nel 1915 fu nominato professore di procedura civile all'Università di Messina. Successivamente (nel 1918) fu chiamato all'Università di Modena per poi passare a quella di Siena diventandone ordinario nel 1919 in seguito alla morte di Lessona[2]. Della commissione incaricata a valutarne le capacità faceva parte il giurista Alfredo Rocco[2]. Infine, nel 1924, scelse di passare alla nuova facoltà giuridica di Firenze, dove ha tenuto fino alla morte la cattedra di diritto processuale civile.

Prese parte alla prima guerra mondiale come ufficiale volontario[2] nel 218º reggimento di fanteria; ne uscì col grado di capitano e fu successivamente promosso tenente colonnello, ma preferì lasciare l'esercito per proseguire la propria carriera accademica.

Il ventennio fascista e l'attività di giurista

Quando nel 1924 fu istituita la Commissione per la riforma dei codici, Calamandrei fu inserito nella sottocommissione incaricata di riformare il codice di procedura penale[3]. La commissione terminò il proprio compito nel 1926, ma le proposte rimasero sulla carta.

Dopo il delitto Matteotti entrò a far parte del movimento Unione Nazionale, un partito liberale e antifascista fondato da Giovanni Amendola, entrando nel consiglio direttivo. Partecipò, insieme a Dino Vannucci, Ernesto Rossi, Carlo Rosselli e Nello Rosselli alla direzione di Italia Libera, un gruppo clandestino di ispirazione azionista. Nel 1925 sottoscrisse il Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Durante il ventennio fascista fu uno dei pochissimi professori e avvocati a non chiedere la tessera del Partito Nazionale Fascista[4] e collaborò con la testata Non Mollare, ma nel 1931 giurò fedeltà al regime fascista[3][5].

Negli anni seguenti vi furono altri tentativi da parte dei ministri Pietro De Francisci prima e del nuovo ministro Arrigo Solmi di riformare i codici ma non ebbero sviluppo pratico[3]. Nel 1939 divenne nuovo ministro di Grazia e Giustiziail bolognese Dino Grandi che riprese in mano l'idea di riformare i codici. Grandi affidò subito l'incarico al magistrato Leopoldo Conforti e decise inoltre di coinvolgere in maniera diretta i più importanti studiosi di procedura civile dell'epoca che erano Enrico Redenti, Francesco Carnelutti e Calamandrei[3]. Il 16 ottobre 1939 il ministro Grandi in un celebre discorso indicò quali fossero le linee in base alle quali avrebbe dovuto svolgersi la riforma dei codici poi tramite il suo capo gabinetto richiese il parere dello stesso Calamandrei il quale svolse una relazione prettamente tecnica mentre il 13 novembre tutti e tre i giuristi furono invitati ad esprimere il proprio parere sul precedente lavoro di riforma effettuato da Conforti. Calamandrei fu poi invitato insieme a Carnelutti e Redenti ad una riunione insieme con il ministro Grandi che si tenne tra il 18 e il 21 dicembre[3].

Nel corso del 1940 Grandi, nel frattempo diventato Presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni decise di privilegiare il rapporto con lo stesso Calamandrei che infatti convocò il 26 aprile 1940[6]. In questa occasione, come lo stesso Calamandrei annotò sul proprio diario, Grandi gli riferì di un colloquio avuto con Mussolini in cui gli aveva detto che dei tre giuristi coinvolti nel progetto "il più fascista è il non fascista Calamandrei", Calamandrei perplesso domandò "Tutto sta a vedere che significato Lei dà alla parola fascista", ma Grandi lo tranquillizzò replicando "In senso buono" allora Calamandrei rispose "Allora me ne compiaccio"[6]. All'inizio della seconda guerra mondiale Calamandrei fu richiamato al fronte ma ottenne una dispensa per intervento di Grandi che lo aveva incaricato nel frattempo di svolgere l'ultima revisione del codice di procedura civile[6].

Nella relazione preparata per il Re Calamandrei espose come nel nuovo codice di procedura civile fossero presenti i principi legislativi cui si erano ispirati e come le più importanti innovazioni di quei principi avessero trovato attuazione[6]. Calamandrei indicò inoltre come propria fonte di ispirazione il giurista Giuseppe Chiovenda[6]. Il nuovo codice di procedura civile fu promulgato il 28 ottobre 1940 ed entrò definitivamente in vigore il 21 aprile 1942. Per il proprio lavoro subito dopo la promulgazione del codice Calamandrei fu decorato dallo stesso ministro Grandi con le insegne di cavaliere di Gran Croce[7]. Il codice di procedura civile emanato nel 1942 è in parte ancora in vigore in Italia. Nel 1941 il "Centro di studi giuridici" lo coinvolse nel progetto di pubblicare cinque volumi sul pensiero giuridico italiano e il suo intervento intitolato "Gli studi di diritto processuale civile in Italia nel Ventennio fascista" fu inserito nel primo volume della collana[7].

Calamandrei partecipò anche ai lavori preparatori per il nuovo codice civile di cui partecipò attivamente alla stesura del VI libro[6]. Si dimise da professore universitario per non sottoscrivere una lettera di sottomissione al duce che gli venne chiesta dal rettore del tempo[senza fonte].

I lavori sul nuovo codice di procedura civile

Secondo lo stesso Calamandrei, nel nuovo codice di procedura civile trovano formulazione legislativa gli insegnamenti fondamentali della scuola di Chiovenda. A riprova di ciò, Alessandro Galante Garrone (Calamandrei, Garzanti 1987) evidenziò che la relazione del Guardasigilli al Re, scritta in uno stile inconfondibilmente scorrevole e piano, è opera dello stesso Calamandrei. E immediatamente dopo l'entrata in vigore del codice, Conforti in alcuni scritti giuridici e lo stesso Grandi nel suo epistolario con Calamandrei affermarono in maniera esplicita di essersi richiamati all'insegnamento di Giuseppe Chiovenda.

Secondo rielaborazioni più recenti (vedi a proposito Piero Calamandrei e la procedura civile, miti leggende interpretazione documenti di Franco Cipriani, Edizioni Scientifiche Italiane 2007), il codice di procedura civile non aveva nulla di chiovendiano (Calamandrei sarebbe stato addirittura avversario di Giuseppe Chiovenda), poiché era un codice autoritario, tipico frutto di un regime liberticida. Autoritario soprattutto per quanto riguarda l'autorità del giudice, concetto dietro cui si nascondeva il forte autoritarismo e l'inquisitorietà della figura del magistrato nella conduzione del processo (in particolare in fatto di ammissione delle prove), che riprendeva con pochissime modifiche la bozza Solmi del 1939. Da guardasigilli, lo storico del diritto Arrigo Solmi aveva portato avanti i lavori sul codice di procedura civile avvalendosi di una commissione cui l'unico membro proveniente dal mondo accademico era Redenti. In pratica i lavori furono portati avanti senza l'ausilio della dottrina, che rispose in maniera molto critica alle opzioni autoritarie insite in quella bozza.

Ad esempio lo stesso Calamandrei fu molto critico rispetto ad essa, ma solo sul piano tecnico, sapendo di non poter contrastare il fascismo sul piano dei principi. Grandi, che succedette a Solmi nel 1939 ed era un fine politico, si avvalse principalmente dell'apporto di Carnelutti e Calamandrei, che insieme a Redenti erano gli esponenti più autorevoli della scienza processualcivilistica del tempo. Sempre secondo Cipriani, Calamandrei sarebbe stato l'unico ad accettare di buon grado la collaborazione, probabilmente pensando che fosse l'unico modo per influire sulla bozza del codice e arginare le tendenze autoritarie che Grandi, avendo l'obiettivo di rielaborare con poche modifiche la bozza Solmi, stava imprimendo alla riforma. Calamandrei tentò di sabotare l'operazione con sottili proposte tese a neutralizzare l'autoritarismo del codice, ma con risultati marginali. A quel punto, provò a creare una base ideologica per il codice nella relazione al Re, puntando sui principi di Chiovenda (quest'ultimo, evento unico, è citato ben sette volte nella relazione al re, mentre sono spariti i riferimenti a Lodovico Mortara, probabilmente espunti dallo stesso Grandi), in verità del tutto assenti nel codice, o inserendo idee che in realtà non erano state accolte nel nuovo testo.

La tesi secondo la quale il codice di procedura civile del 1942 sarebbe stato un codice "chiovendiano" riuscì a influenzare tutta la dottrina successiva, fino ai giorni nostri. Tant'è che la "novella" con cui nel 1950 il codice fu allineato su principi del testo previgente fu accolta dai processualisti vicini a Calamandrei come una vera e propria "controriforma".

Il dopoguerra e l'attività politica

Calamandrei in una foto del 1946

Nel 1945 fu nominato membro della Consulta Nazionale in rappresentanza del Partito d'Azione e successivamente venne eletto all'Assemblea Costituente[12]. Partecipò attivamente ai lavori parlamentari come componente della Giunta delle elezioni della commissione d'inchiesta e della Commissione per la Costituzione italiana. I suoi interventi nei dibattiti dell'Assemblea ebbero larga risonanza: specialmente i suoi discorsi sul piano generale della Costituzione, sui Patti lateranensi, sulla indissolubilità del matrimonio, sul potere giudiziario.

Calamandrei propose una repubblica presidenziale con "pesi e contrappesi", come negli Stati Uniti, o un sistema di premierato sul modello Westminster britannico, per evitare la debolezza dei governi, come si verificò poi puntualmente durante la storia della repubblica, e, allo stesso tempo, impedire la deriva autoritaria insita sia nel troppo potere, sia nel disordine delle istituzioni, come era avvenuto col fascismo[13]. Retrospettivamente, fu suo il giudizio sulla Costituzione "tripartitica", "di compromesso", nella quale le forze di destra per compensare quelle di sinistra per "una rivoluzione mancata" concessero loro "una rivoluzione promessa"[14]. Nonostante ciò, difese sempre la repubblica parlamentare e la Costituzione, così come erano uscite dal dibattito democratico nella Costituente.

Quando il Partito d'Azione si sciolse, entrò a far parte del Partito Socialista Democratico Italiano, con cui fu eletto deputato nel 1948. Definito dall'Economist come the most impressive private member in the House[15], fu contrario alla «legge truffa»: quando fu votata anche con l'appoggio del suo partito, fondò dapprima il movimento politico Autonomia Socialista e, nel 1953, prese parte alla fondazione del movimento di Unità Popolare con il vecchio amico Ferruccio Parri: nonostante l'esiguo risultato ottenuto, ciò fu decisivo affinché la Democrazia Cristiana e i partiti suoi alleati non raggiungessero la percentuale di voti richiesta dalla nuova legge per far scattare il premio di maggioranza.

Avvocato di fama, fu presidente del Consiglio Nazionale Forense dal 1946 alla morte. Accademico dei Lincei, direttore dell'Istituto di diritto processuale comparato dell'Università di Firenze, fu direttore della Rivista di diritto processuale, de Il Foro toscano e del Commentario sistematico della Costituzione italiana. Non erano queste le sue prime esperienze giornalistiche: nell'aprile del 1945 aveva infatti fondato il settimanale politico-letterario Il Ponte. Memorabile il suo "Elogio dei giudici scritto da un avvocato" in cui condensa l'esperienza professionale e accademica di 40 anni di attività. Collaborò inoltre con la rivista Belfagor.

Il 26 gennaio 1955 tenne a Milano un famoso discorso[16][17] presso la Società Umanitaria di Milano; rivolto ad alcuni studenti universitari e delle scuole medie superiori - che avevano autonomamente organizzato un ciclo di conferenze sulla Costituzione italiana, nonostante la contrarietà delle loro scuole e anche la contestazione fisica di altri studenti organizzati dalla destra - verteva sui principi della Costituzione Italiana e della libertà[18]. Il discorso era animato da un'ispirazione risorgimentale[19] ed il suo finale è rimasto celebre:

«Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, questo è un testamento, un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra costituzione»
www.senato.it/documenti/repository/istituzione/costituzione.pdf


ALDO GASTALDI

Dopo settant’anni il nome di Aldo Gastaldi continua a risuonare nella memoria di chi ha preso parte alla lotta di liberazione. Sottotenente del XV Reggimento Genio, a pochi giorni dall'armistizio sale in montagna e nel giro di pochi mesi, con il nome di “Bisagno”, diventa il comandante più amato della resistenza in Liguria. Ricordato come “primo partigiano d’Italia”, è lui il protagonista del documentario “Bisagno”, di Marco Gandolfo. Gastaldi interpreta il ruolo non come potere, ma come servizio: è il primo a esporsi ai pericoli e l’ultimo a mangiare, riserva a se stesso i turni di guardia più pesanti. Si conquista così l’amore e la stima degli uomini e delle popolazioni contadine, senza il cui sostegno la lotta partigiana sarebbe stata impossibile. Cattolico, apartitico, con un carisma straordinario, si oppone con decisione ad ogni tentativo di politicizzazione della resistenza. La sua statura umana e cristiana ha segnato la vita di molti compagni. A partire dalla documentazione raccolta dalla famiglia e dalle interviste a coloro che l’hanno conosciuto, Marco Gandolfo ha realizzato un film documentario in cui l’itinerario umano e spirituale di Aldo Gastaldi si intreccia alle complesse dinamiche politico-ideologiche che hanno accompagnato le vicende resistenziali, restituendo lo sguardo di un uomo capace di interrogare anche il presente.