© 2018
Poche ore dopo la comunicazione radiofonica del maresciallo Badoglio e a battaglia già in corso, il 9 settembre 1943, alle 16:30, a Roma, in via Carlo Poma, sei esponenti politici dei partiti antifascisti, usciti dalla clandestinità a seguito del crollo del regime, si riunirono e costituirono il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), struttura politico-militare che avrebbe caratterizzato la Resistenza italiana contro l'occupazione tedesca e le forze collaborazioniste fasciste della Repubblica di Salò in tutto il periodo della guerra di liberazione[18]. I sei componenti erano Pietro Nenni per il PSIUP, Giorgio Amendola per il PCI, Ugo La Malfa per il Partito d'Azione, Alcide De Gasperi per la Democrazia Cristiana, Meuccio Ruini per Democrazia del Lavoro e Alessandro Casati per i liberali. L'indomani mattina Nenni ebbe un contatto telefonico con altri esponenti politici a Milano e il 12 settembre si recò nel capoluogo lombardo dove, nonostante il rifiuto di Ferruccio Parri di assumere subito la guida delle formazioni antifasciste, venne a sua volta costituito un altro comitato con il nome di "Comitato di Liberazione nazionale Alta Italia" (CLNAI), che più tardi sarebbe diventato il coordinatore della guerra partigiana al nord[19]. Nei giorni seguenti si moltiplicarono i comitati di liberazione locali per organizzare la lotta armata nelle regioni occupate dai tedeschi: a Torino, a Genova, a Padova sotto la direzione di Concetto Marchesi, Silvio Trentin, ed Egidio Meneghetti, a Firenze con Piero Calamandrei, Giorgio La Pira e Adone Zoli. Entro l'11 settembre la struttura dei CLN era costituita e i comitati passarono rapidamente alla lotta armata e alla clandestinità di fronte al rafforzarsi del potere politico militare delle forze tedesche e del nuovo Stato repubblicano fascista, mentre il 15 settembre ad Arona i primi capi delle formazioni partigiane organizzate in montagna (Ettore Tibaldi, Vincenzo Moscatelli) e i rappresentanti dei CLN (Mario e Corrado Bonfantini, Aldo Berrini, l'avvocato Menotti e Gaspare Pajetta) si incontrarono per discutere dettagli organizzativi e strutture di comando[20]. Lo storico Paolo Spriano ha illustrato tre caratteristiche fondamentali della Resistenza italiana presenti fin dal suo inizio e rimaste come elementi caratterizzanti per gran parte della sua storia. In primo luogo il movimento si formò e crebbe partendo praticamente dal nulla in una situazione politico-militare estremamente critica; in secondo luogo le circostanze del crollo del fascismo, scaturito da un'azione autonoma di ristrette autorità di potere compromesse con il regime e senza una reale partecipazione popolare, e il drammatico dissolvimento dello Stato dopo l'8 settembre, condussero a un rifiuto da parte di gran parte del movimento resistenziale di ogni compromesso con le forze conservatrici raccolte intorno al re e al maresciallo Badoglio. Infine l'assenza, nel momento della costituzione, di un reale riconoscimento da parte alleata della Resistenza italiana e di conseguenza di una sua rappresentatività nelle strutture di comando alleate, a differenza di altri movimenti resistenziali europei[21]. Secondo le parole di Spriano: "le capitali della Resistenza non saranno né Algeri, né Londra, né Mosca, né Brindisi o Salerno, ma la macchia e le città della guerriglia e della cospirazione clandestina"[22]. Poche ore dopo la comunicazione radiofonica del maresciallo Badoglio e a battaglia già in corso, il 9 settembre 1943, alle 16:30, a Roma, in via Carlo Poma, sei esponenti politici dei partiti antifascisti, usciti dalla clandestinità a seguito del crollo del regime, si riunirono e costituirono il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), struttura politico-militare che avrebbe caratterizzato la Resistenza italiana contro l'occupazione tedesca e le forze collaborazioniste fasciste della Repubblica di Salò in tutto il periodo della guerra di liberazione[18]. I sei componenti erano Pietro Nenni per il PSIUP, Giorgio Amendola per il PCI, Ugo La Malfa per il Partito d'Azione, Alcide De Gasperi per la Democrazia Cristiana, Meuccio Ruini per Democrazia del Lavoro e Alessandro Casati per i liberali. L'indomani mattina Nenni ebbe un contatto telefonico con altri esponenti politici a Milano e il 12 settembre si recò nel capoluogo lombardo dove, nonostante il rifiuto di Ferruccio Parri di assumere subito la guida delle formazioni antifasciste, venne a sua volta costituito un altro comitato con il nome di "Comitato di Liberazione nazionale Alta Italia" (CLNAI), che più tardi sarebbe diventato il coordinatore della guerra partigiana al nord[19]. Nei giorni seguenti si moltiplicarono i comitati di liberazione locali per organizzare la lotta armata nelle regioni occupate dai tedeschi: a Torino, a Genova, a Padova sotto la direzione di Concetto Marchesi, Silvio Trentin, ed Egidio Meneghetti, a Firenze con Piero Calamandrei, Giorgio La Pira e Adone Zoli. Entro l'11 settembre la struttura dei CLN era costituita e i comitati passarono rapidamente alla lotta armata e alla clandestinità di fronte al rafforzarsi del potere politico militare delle forze tedesche e del nuovo Stato repubblicano fascista, mentre il 15 settembre ad Arona i primi capi delle formazioni partigiane organizzate in montagna (Ettore Tibaldi, Vincenzo Moscatelli) e i rappresentanti dei CLN (Mario e Corrado Bonfantini, Aldo Berrini, l'avvocato Menotti e Gaspare Pajetta) si incontrarono per discutere dettagli organizzativi e strutture di comando[20]. Lo storico Paolo Spriano ha illustrato tre caratteristiche fondamentali della Resistenza italiana presenti fin dal suo inizio e rimaste come elementi caratterizzanti per gran parte della sua storia. In primo luogo il movimento si formò e crebbe partendo praticamente dal nulla in una situazione politico-militare estremamente critica; in secondo luogo le circostanze del crollo del fascismo, scaturito da un'azione autonoma di ristrette autorità di potere compromesse con il regime e senza una reale partecipazione popolare, e il drammatico dissolvimento dello Stato dopo l'8 settembre, condussero a un rifiuto da parte di gran parte del movimento resistenziale di ogni compromesso con le forze conservatrici raccolte intorno al re e al maresciallo Badoglio. Infine l'assenza, nel momento della costituzione, di un reale riconoscimento da parte alleata della Resistenza italiana e di conseguenza di una sua rappresentatività nelle strutture di comando alleate, a differenza di altri movimenti resistenziali europei[21]. Secondo le parole di Spriano: "le capitali della Resistenza non saranno né Algeri, né Londra, né Mosca, né Brindisi o Salerno, ma la macchia e le città della guerriglia e della cospirazione clandestina"[22].
In realtà mentre si costituivano i Comitati di Liberazione nelle varie città in cui si estendeva rapidamente l'occupazione tedesca, i primi gruppi di ribelli erano già in fase di organizzazione spontanea nelle regioni più impervie dell'Italia settentrionale e centrale, con collegamenti minimi con le strutture clandestine politiche cittadine a causa della confusione generale seguita all'8 settembre e al totale fallimento delle gerarchie del Regio Esercito, che rifiutarono di organizzare unità volontarie per attaccare i tedeschi e si arresero con i loro comandi senza combattere[23]. I primi raggruppamenti si costituirono nelle Prealpi e nel Preappennino per facilitare gli approvvigionamenti dalla pianura e per poter disporre di aree arretrate di sicurezza in alta montagna. Organizzati e comandati in un primo momento da giovani ufficiali inferiori e sottufficiali dell'esercito in dissoluzione, questi primi gruppi, costituiti da poche decine di elementi, vennero rafforzati dai primi capi politici che salirono in montagna per prendere parte alla lotta e organizzarla[24]. Nel tempo peraltro si assisterà a una progressiva politicizzazione di molti ufficiali inferiori dell'esercito e a una militarizzazione dei capi politici comunisti e azionisti, sempre più concentrati sull'organizzazione tecnica e sull'efficienza della guerra partigiana contro i nazifascisti[25]. Il maggiore degli Alpini Enrico Martini "Mauri", comandante delle formazioni autonome delle Langhe e Monferrato. Le motivazioni dei primi gruppi di partigiani, calcolati alla metà di settembre in appena 1 500 uomini[26], furono complesse e legate principalmente all'odio verso i tedeschi e il fascismo, al rifiuto di accettare il disastro e l'umiliazione nazionale, alla fedeltà, presente in molti ufficiali, all'ordine costituito rappresentato dalla Monarchia, alla necessità di sottrarsi alla cattura e alla deportazione, alla paura delle vendette dei fascisti, alle motivazioni politiche di palingenesi sociale degli elementi comunisti e azionisti e infine anche a sentimenti di avventurosità giovanile. Importante fu inoltre il ruolo giocato dagli ufficiali inferiori Alpini che, ritornati delusi e furenti contro i tedeschi e il Regime dalla campagna di Russia che era costata loro tante perdite[27], costituirono nuclei di comandanti combattivi ed esperti della guerra in montagna[28]. Elemento fondamentale di coesione tra i partigiani fu l'antifascismo, il rifiuto totale della disastrosa "guerra fascista" subalterna all'alleato tedesco; il disprezzo e la critica radicale al Regio Esercito e soprattutto agli ufficiali superiori considerati inetti e imbelli. In particolare tra le formazioni garibaldine comuniste e tra i giellisti si diffuse un netto rifiuto delle gerarchie militari compromesse con il fascismo, e di tutte le formalità di gradi, divise, ordini, rituali, tipici degli eserciti. La disciplina era basata soprattutto sulla coesione, sulle motivazioni e sull'autoconvincimento, mentre il soldo assegnato ai partigiani era molto limitato e uguale per tutti[29]. I capi delle formazioni partigiane venivano selezionati sul campo e ottenevano ruolo e comando sulla base delle capacità mostrate e del consenso dal basso di tutti i membri combattenti delle formazioni con procedure completamente estranee alla rigida gerarchizzazione degli eserciti regolari, indipendentemente dal grado eventualmente posseduto in precedenza nel "disciolto" esercito[30]. Accanto al comandante militare tutte le formazioni partigiane, tranne i reparti autonomi, avevano un "commissario politico" con parità di grado, che condivideva la responsabilità operativa e assumeva soprattutto la funzione di rappresentante politico incaricato dell'istruzione e dell'assistenza morale e pratica dei combattenti[31] Il rifiuto del "fallito" Regio Esercito da parte della grande maggioranza dei partigiani non permise una vera coesione morale tra i combattenti della Resistenza e i reparti dell'Esercito faticosamente costituiti al Sud per combattere a fianco degli Alleati, considerati dai partigiani, nonostante la retorica propagandistica dispiegata non solo dalle autorità regie ma anche dagli stessi partiti del CLN, modesti resti di un'istituzione completamente screditata.[32]
Alla metà di settembre i nuclei più forti di partigiani erano nell'Italia settentrionale, circa 1.000 uomini, di cui 500 in Piemonte, mentre nell'Italia centrale erano presenti circa 500 combattenti, di cui 300 raggruppati nei settori montuosi di Marche e Abruzzo[26]. Dante Livio Bianco, comandante delle Brigate Giustizia e Libertà nella valle Stura. In Piemonte le formazioni si costituirono nelle valli alpine, specialmente nelle Alpi Marittime: In Val Pesio sorsero le formazioni autonome del capitano Cosa; in val Casotto incominciarono a organizzarsi le efficienti formazioni autonome guidate dal maggiore degli Alpini Enrico Martini "Mauri"; nelle colline di Boves salirono i reduci della IV Armata guidati da Ignazio Vian; in Valle Gesso si costituì la formazione Italia Libera per iniziativa di Duccio Galimberti, Dante Livio Bianco e Benedetto Dalmastro da cui nasceranno le formazioni dei giellisti[33]. Altre formazioni autonome si formarono in Val d'Ossola sotto la guida di Alfredo e Antonio Di Dio, fratelli e ufficiali effettivi, in val Strona con Filippo Beltrami, in val Toce con Eugenio Cefis e Giovanni Marcora e in val Chisone, guidati dal sergente alpino Maggiorino Marcellin "Bluter"[34]. Le formazioni gielliste e delle Brigate Garibaldi si organizzarono a Frise (unità gielliste con Luigi Ventre, Renzo Minetto, Giorgio Bocca, tutti ufficiali degli Alpini); a Centallo (autonomi e giellisti organizzati da altri tre ufficiali alpini tra cui Nuto Revelli), in valle Po, dove, sotto la guida di Pompeo Colajanni "Barbato", ufficiale di cavalleria comunista, si organizzò una forte formazione garibaldina con Giancarlo Pajetta, Antonio Giolitti, Guastavo Comollo; in val Pellice (giellisti); nel Biellese (nuclei di comunisti con vecchi antifascisti come Guido Sola, Battista Santhià e Francesco Moranino "Gemisto"); soprattutto in Valsesia dove si costituirono le formazioni comuniste garibaldine guidate da combattenti prestigiosi come Vincenzo Moscatelli "Cino", Eraldo Gastone "Ciro"[35]. Nuto Revelli, comandante delle Brigata Giustizia e Libertà "Carlo Rosselli" in valle Stura. Altri nuclei di partigiani si costituirono in Lombardia nel Varesotto, dove il colonnello Carlo Croce organizzò sul monte San Martino un gruppo di soldati sbandati; nella Valsassina, nelle valli bergamasche. Nel Veneto e in Friuli la situazione era ancor più confusa: nella provincia di Gorizia era attiva fin dal 1941 la crescente resistenza slovena. Si formarono numerosi gruppi cattolici tra cui quello di Mario Cincigh, e azionisti (con Fermo Solari e Alberto Cosattini), mentre i comunisti, guidati da capi come Giovanni Calligaris, Mario Lizzero, Otello Modesti, Giovanni Padoan "Vanni" e Ferdinando Mautino "Carlino" cominciarono a costituire le formazioni garibaldine che avrebbero poi dato vita alla Divisione Natisone[36]. Non mancarono nemmeno i liberali, come Francesco Petrin che dopo aver condotto un'intensa propaganda antifascista e assistenza agli alleati prese parte attiva alla guerra di liberazione nella brigata G. Negri di Padova[37][38]. Nel resto dell'Italia occupata dai tedeschi si organizzarono altri gruppi in Emilia e in Romagna, guidati dal comunista Arrigo Boldrini "Bülow" e da Silvio Corbari, operaio meccanico di Faenza ed ex calciatore, la cui "banda" divenne famosa e temuta per le sue arrischiate incursioni contro le basi nemiche[39]. In Toscana sorsero "bande" sul passo dei Giovi e sul monte Morello, in Umbria (con la partecipazione di ex-prigionieri slavi); nelle Marche, sotto la guida di Spartaco Perini alcune centinaia di uomini si radunarono al colle San Marco; infine in Abruzzo al bosco Martese confluirono militari sbandati e volontari comunisti e giellisti[40], mentre Ettore Troilo incominciò a costituire la sua "banda Patrioti della Maiella" che il 5 dicembre 1943 avrebbe attraversato le linee del fronte entrando a far parte dello schieramento alleato e partecipando con distinzione a tutta la campagna d'Italia lungo il versante adriatico[41]. Silvio Corbari, comandante della banda partigiana attiva nelle province di Ravenna e Forlì. Le decisioni politiche prese soprattutto dai dirigenti del Partito comunista a Roma ebbero decisiva influenza sulla crescita del movimento: Pietro Secchia, "Botte"o "Vineis", ex operaio biellese, comunista fin dalla fondazione del partito, imprigionato dal regime fascista dal 1931, liberato da Ventotene il 19 agosto 1943, venne incaricato, durante una riunione tenuta a Roma il 10 settembre 1943, di recarsi a Milano, per organizzare insieme con altri dirigenti del PCI inviati al nord, la guerra partigiana. Secchia raggiunse Milano in treno il 14 settembre dopo essere passato per Firenze e Bologna e aver raggiunto Cino Moscatelli a Borgosesia, per diffondere le direttive del partito tra numerosi militanti provenienti dall'antifascismo attivo[42]. Tra il 20 e il 22 settembre anche Luigi Longo "Italo", già dirigente delle Brigate Internazionali in Spagna, partirà per il nord per affiancare Secchia nella organizzazione e direzione del movimento di resistenza[43]. Fin dal novembre 1943 i comunisti poterono costituire a Milano la prima struttura organizzativa unificata: il comando generale delle Brigate Garibaldi con Luigi Longo come responsabile militare e Pietro Secchia come commissario politico; i componenti iniziali del comando furono, oltre a Longo e Secchia, Antonio Roasio, Francesco Scotti, Umberto Massola, Antonio Cicalini e Antonio Carini[44]. Le altre organizzazioni non costituirono comandi unificati ma si assistette comunque a una proliferazione di Brigate, Divisioni e Gruppi di divisioni, in realtà costituite da poche migliaia di uomini e con strutture organiche rudimentali. Pietro Secchia ha messo in evidenza nelle sue opere storiche dedicate alla Resistenza alcuni elementi che egli ritiene fondamentali per comprendere la natura e la forza del movimento partigiano: egli sottolinea come la Resistenza ebbe successo soprattutto per la tenace, faticosa e determinata attività di minoranze cresciute negli anni della deprimente e durissima militanza antifascista prima della guerra. Secchia rifiuta la semplicistica definizione di "popolo in armi" e l'interpretazione del fenomeno come "epopea miracolosa"; secondo il dirigente comunista la Resistenza fu opera soprattutto di avanguardie, di quadri, che furono in grado di raccogliere e organizzare importanti masse di giovani. Secchia documenta come su 1.673 nomi di dirigenti importanti del movimento partigiano circa il 90% fossero militanti che erano già stati condannati al carcere, al confino o all'esilio dal regime fascista; egli quindi evidenzia questo rapporto di continuità e colleganza tra la militanza antifascista organizzata e il movimento partigiano[45].
Operanti al di fuori del CLN ma di qualche importanza, dal punto di vista militare, agivano formazioni partigiane anarchiche locali come le Brigate Bruzzi Malatesta che talvolta mantenevano rapporti di intervento armato con altre formazioni legate a Giustizia e Libertà e al PSI come le Brigate Matteotti e alla formazione romana sempre di Giustizia e Libertà al comando di Vincenzo Baldazzi. Dove gli anarchici non riuscirono a organizzare formazioni autonome confluirono nelle Brigate Garibaldi, come nel caso di Emilio Canzi, soprannominato il colonnello anarchico comandante unico delle XIII zona operativa del piacentino[46]. Un'altra formazione non direttamente collegata al CLN fu il movimento comunista Bandiera Rossa, operante principalmente a Roma che ebbe 68 militanti fucilati alle fosse Ardeatine, numero molto elevato (corrispondente a poco meno di un quinto del totale degli uccisi);[47] questo gruppo era numericamente la più forte formazione partigiana attiva nella capitale, ufficialmente costituita da almeno 1.185 miliziani[48]. I partigiani di Bandiera Rossa Roma agivano spesso in cooperazione con i militanti della "banda del Gobbo"; il "Gobbo" era legato politicamente ai socialisti, direttamente con Pietro Nenni. Inoltre ancora al di fuori del CLN (mantenendo o meno collegamenti per questioni operative) per quanto riguarda i partigiani anarchici agivano molte formazioni libertarie che operavano nell'alta Toscana come il Battaglione Lucetti e la Elio Lunense[49], ad esempio, e diverse formazioni autonome SAP di indirizzo libertario operavano a Genova e nel ponente ligure. A Genova l'inizio armato delle ostilità verso i nazifascisti è da ascrivere probabilmente a un gruppo ancora non organizzato di comunisti anarchici di Sestri[50]
© 2018