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L'eccidio di Pratolungo è un crimine di guerra della seconda guerra mondiale ai Castelli Romani, avvenuto il 19 febbraio 1944 nel territorio di Velletri, in provincia di Roma.
Dopo lo sbarco di Anzio (22 gennaio 1944), Velletri si era trovata a essere retrovia del fronte. Il 19 febbraio del 1944 in contrada Pratolungo, dodici cittadini italiani vennero trucidati dai soldati tedeschi durante una rappresaglia per la morte di un soldato tedesco ucciso da un contadino che voleva difendere la moglie da un tentativo di stupro. I martiri furono: Nicola Amici, Pietro Ferri, Artemisia Mammucari, Achille Mancini, Carlo Martini, Silvio Papacci, Enrico Papacci, Renato Priori, Sabatino Raia, Palmiero Casini e Gerardo Ramiccia.
Nel 1994, lungo la strada di via di Vecchia Napoli a poca distanza dal luogo dell'eccidio fu posta una stele a memoria delle vittime. Ogni anno l'amministrazione comunale commemora presso la stele il ricordo dell'avvenimento.
Bibliografia
Ilaria Orsolini, Pratolungo 1944: una strage dimenticata, Velletri 2006.
Guido Di Vito, Pratolungo 1944: il racconto dei protagonisti, Velletri 2006.
Ugo Mancini, La guerra nelle terre del papa, Franco Angeli, Milano 2011
RICORDO DELL’ECCIDIO DI PRATOLUNGO
(19 febbraio 1944)
Nel febbraio 1944 io avevo 10 anni, vivevo con la mia famiglia nella vigna, in contrada Pratolungo, dove vivo ancora.
Ricordo tutto, come se fosse oggi.
Si faceva la fame, allora.
I reparti tedeschi che occupavano le nostre vigne, senza più scorte di viveri, imperversavano nella campagna e nelle nostre case.
Noi avevamo qualche gallina, mio padre diceva sempre di cucinarle, mamma non lo ascoltava pensando di tenerle il più possibile, anche perché prendeva le uova.
Un giorno, ricordo, vedendo arrivare i tedeschi, mia madre nascose le galline in una botte, ma uno dei tedeschi, muovendo un coperchio, le trovò.
Le presero tutte e gli staccarono la testa con la baionetta; noi bambini ci gettammo a terra per raccoglierle, ma i tedeschi ci allontanarono malamente e con rabbia le trivellarono a colpi di mitra.
Fatti come questi, e anche peggiori, succedevano tutti i giorni nelle nostre vigne.
Il 17 febbraio due militari tedeschi, passando tra due file di ulivi, si presentarono a casa nostra. Erano ubriachi e al passaggio nel cielo di due aerei alzarono i fucili e gli spararono contro come se volessero abbatterli.
Poi, uno di loro puntò il fucile contro un albero di ulivo, stava per sparare ma mio padre gli fece capire che poteva colpire i bambini nascosti proprio dietro l’albero.
I due tedeschi presero allora mio padre sotto braccio e si diressero verso la grotta alla ricerca di roba da mangiare.
La grotta era allagata, i militari chiesero una scala per controllare nel fondo.
Mio padre disse loro che sarebbe stato inutile e pericoloso. I due, convinti, presero ancora mio padre sotto braccio e si diressero verso la vigna di Mancini. Lo intravidero in un canneto e gli puntarono contro il fucile, poi dissero a mio padre di accompagnarli dove si trovavano nascoste le pecore, imitando il verso degli animali. Mio padre disse loro che non c’erano pecore né altro.
Andarono ancora avanti e giunsero al viale della casa di Gratta,mentre mio padre insisteva col dire che non avrebbero trovato niente. I tedeschi aprirono la porta della cantina di Gratta e videro una pecora appesa al soffitto. Felici, si fecero una gran risata, e col fucile intimarono a mio padre di salire sua una sedia per staccare la pecora.
Prima di consegnarla, mio padre disse loro che non era giusto prenderla tutta, perché c’erano tanti bambini da sfamare e li pregò di prenderne soltanto metà. Mio padre e la moglie di Gratta avrebbero voluto tenere la parte dei cosci, ma, poi, si accontentarono della spalla. La moglie di Gratta andò a prendere un sacco per metterci la parte di carne dei tedeschi.
Al confine tra la vigna di Gratta e quella di Moretti mio padre pregò ancora i tedeschi di andarsene dicendo con insistenza che non avrebbero trovato altro cibo. Mia madre, intanto, preoccupata, seguiva sempre la scena da vicino; i tedeschi quando se ne accorsero le fecero cenno di allontanarsi.
Uno dei due, intanto, nella ricerca di altro cibo da rubare, entrò nella cantina di Moretti.
Da fuori si sentirono delle urla: era la voce della moglie di Moretti. Suo marito Amedeo accorse subito e trovò sua moglie a terra e il tedesco sopra di lei: i due si contendevano una forma di pecorino. L’altro tedesco, sentendo le urla e altri rumori, si diresse velocemente nella cantina.
Dopo un po’ si videro uscire Moretti e la moglie che frettolosamente si allontanavano.
Nella cantina venne trovato uno dei tedeschi morto e l’altro ferito, colpiti entrambi da una baionetta tedesca. Tutti pensarono, poi, che fosse stata opera di Moretti. In seguito lo stesso Amedeo Moretti dirà che a colpire i due tedeschi fu un giovane, poi diventato carabiniere, che da tempo si era rifugiato nella sua cantina.
Marzio Giammatteo prestò soccorso al ferito pensando di mitigare la reazione dei tedeschi e lo accompagnò presso il casale dei Fabiani dove era sita l’infermeria da campo.
I miei genitori avvisarono i vicini dell’accaduto, quindi cercarono un posto sicuro per nascondersi con tutta la famiglia.
Due giorni dopo, il 19 febbraio alle ore 9, scattò il rastrellamento.
Un reparto di SS si diresse nella grotta dove da tempo trovavano rifugio alcune famiglie di sfollati e dove si riparavano dai bombardamenti molti contadini della zona.
Presero tutti gli uomini validi, compresi i giovani e si diressero verso il fosso, distante circa 100 metri.
Nei pressi del fossato sopraggiunse un altro reparto di SS con altri contadini, in tutto erano 22.
Artemisia Mammucari di 39 anni, moglie di Luigi Imperiali, uno degli uomini rastrellati, cercò di avvicinarsi al luogo dove era stato portato suo marito Luigi e gli altri, noncurante delle intimidazioni da parte dei tedeschi. Artemisia invocava il nome del marito che era ormai distante. Incurante delle minacce con le armi provò ad andare avanti ma i tedeschi aprirono il fuoco e la uccisero, vicino ad un grosso ulivo.
Intanto, nei pressi del fosso, i comandanti dei due plotoni SS parlavano tra loro sul da farsi. I contadini presi erano in numero maggiore rispetto a quello previsto dalla rappresaglia ( 10 fucilati per ogni tedesco ucciso).
Luigi Imperiali, che aveva lavorato per anni in Germania, conosceva la lingua tedesca, capì che gli SS erano intenzionati a fucilarli tutti e non volevano perdere tempo, andavano di fretta. I contadini fino a quel momento avevano pensato che si trattasse della solita raccolta di uomini per i lavori forzati. Luigi Imperiali, capito l’incombente pericolo, urlò verso gli altri:
“Scappete! Scappete! Ce vonno fucilà!”
I contadini, che intanto erano stati spinti sul bordo del fosso, si gettarono tra gli sterpi mentre i tdeschi gli scaricavano contro le armi e gettavano bombe a mano nel fossato.
Dopo un po’ alcuni tedeschi scesero nel fossato per dare il colpo di grazia ai feriti.
Papacci Silio di 13 anni viene sgozzato con la baionetta nella nicchia dove si era rifugiato.
Tra i superstiti Angelo Taglioni, rimasto immobile sotto il corpo di una vittima, Papacci Mario sotto il corpo di suo padre ucciso, Luigi Imperiali colpito ad una gamba da una bomba a mano e altri feriti riuscirono ad allontanarsi.
Luigi Imperiali, rifugiatosi sull’Artemisio, dopo due giorni seppe della morte di una donna nella rappresaglia; solo in seguito venne a sapere che si trattava di sua moglie Artemisia.
Dopo l’esecuzione i tedeschi, cantando “gloria”, “gloria”, andarono ad ubriacarsi alla vigna di Gabrielli; passarono poi alla vigna di Moretti e diedero fuoco alla sua casa, che, piena di legna, bruciò subito.
Da sotto un nespolo la mia famiglia e quella dei mancini seguivano la scena terrorizzati.
Quando fu possibile, poi, avvicinarsi al fossato, si presentò loro uno spettacolo raccapricciante.
Il sangue era sparso dappertutto; i parenti delle vittime, piangenti ed addolorati, raccoglievano amorevolmente i corpi a brandelli dei loro cari.
Rimasero uccisi:
AMICI NICOLA,
CASINI PALMIRO,
FERRI PIETRO,
MANCINI ACHILLE,
MANCINI ELIO (19 anni),
MARTINI CARLO,
PAPACCI ENRICO,
PAPACCI SILIO (13 anni),
PRIORI RENATO,
RAIA SEBASTIANO,
RAMICCIA GERARDO,
MAMMUCARI ARTEMISIA
Rimasero feriti:
IMPERIALI LUIGI,
MASTRANTONIO VINCENZO,
MONTI NATALE,
MORETTI MARIO,
PAPACCI ALBERTO,
PAPACCI FERNANDO,
SPALLOTTA EZIO,
TAGLIONI ANGELO,
VICARIO AMERICO,
VICARIO PARIDE .
Sono trascorsi tanti anni, ma quei ricordi sono ancora vivi nelle nostre campagne.
Ogni anno vicino al fosso si ritrovano i parenti di quelle vittime innocenti e si raccontano di quei tristi giorni e vanno ancora alla ricerca di resti dei loro cari.
- Testimonianza diretta accolta il 19 febbraio 1974, durante la cerimonia del trentennale dell'eccidio voluto dal Sindaco Silvio Cremonini e curato dal Prof. Augusto Pede, dal prof. Giuseppe Usai e dalla prof. Anna Tosti
Nel luogo dell'eccidio e' stato eretto un monumento a ricordo di tutte le VittimeOgni anno a cura del Comune di Velletri viene celebrata una messa nella vicina Parrocchia e poi a piedi in visita fino al luogo dell'eccidio dove vengono deposte corone di fiori da parte di Associazioni e Enti pubblici
Lungo la strada che porta al luogo dell'eccidio e' stata recentemente eretta questa stele a ricordo
Il 14 maggio 1944 i goumier del Corpo di spedizione francese in Italia, attraversando un terreno apparentemente insuperabile nei monti Aurunci, aggirarono le linee difensive tedesche nell'adiacente Valle del Liri, consentendo al XIII Corpo britannico di sfondare la linea Gustav e di avanzare fino alla successiva linea di difesa predisposta dalle truppe germaniche, la linea Adolf Hitler. In seguito a questa battaglia si ritiene che il generale Alphonse Juin abbia dato ai suoi soldati cinquanta ore di "libertà", durante le quali si verificarono i saccheggi dei paesi e le violenze sulla popolazione denominate appunto marocchinate.(nella foto sopra) Goumiers della seconda divisione franco-marocchina durante un ultimo briefing prima di dare il cambio alla 34ª divisione americana in prima linea vicino a Cassino
A seguito delle violenze sessuali molte persone furono contagiate da sifilide, gonorrea e altre malattie a trasmissione sessuale, e solo l'uso della penicillina statunitense salvaguardò quelle zone da una vasta epidemia. Molte donne rimasero incinte e altrettante abortirono o ebbero aborti spontanei; benché non siano state fatte ricerche in merito, si ritiene che si verificarono diversi casi di suicidio tra le donne violentate, nonché molti casi di infanticidio della prole nata dallo stupro.
Goumier mentre affila la sua baionetta
Il sindaco di Esperia (comune in provincia di Frosinone) affermò che nella sua città 700 donne su un totale di 2.500 abitanti furono stuprate, e alcune di esse, in seguito a ciò, morirono. Con l'avanzare degli Alleati lungo la penisola, eventi di questo tipo si verificarono altrove: nel Lazio settentrionale e nella Toscana meridionale[4].
Lo scrittore Norman Lewis, all'epoca ufficiale britannico sul fronte di Montecassino, narrò gli eventi:
Diverse città laziali furono investite dalla furia dei goumier (truppe marocchine): si segnalano nella Provincia di Frosinone le cittadine di Esperia[6], Castro dei Volsci, Vallemaio, Sant'Apollinare, Ausonia, Giuliano di Roma, Patrica, Ceccano, Supino, San Giorgio a Liri, Coreno Ausonio, Morolo e Sgurgola, mentre nella Provincia di Latina si segnalano le cittadine di Lenola, Campodimele, Spigno Saturnia, Formia, Terracina, San Felice Circeo, Roccagorga, Priverno, Maenza e Sezze, in cui numerose ragazze e bambine furono ripetutamente violentate, talvolta anche alla presenza dei genitori.
Numerosi uomini che tentarono di difendere le proprie congiunte furono uccisi o violentati a loro volta. Il parroco di Esperia don Alberto Terrilli che cercò invano di salvare tre donne dalle violenze dei soldati, fu legato e sodomizzato tutta la notte, morendo due giorni dopo per le sevizie subite.
A Pico i soldati statunitensi del 351º reggimento fanteria (della 88ª divisione di fanteria, i cui membri erano soprannominati i "blue devils" per la loro ferocia in combattimento) giunsero mentre i goumier stavano compiendo le violenze, ma furono bloccati dal comandante francese del reparto, che disse loro che "erano qui per combattere i tedeschi e non i francesi"[10].
In una relazione redatta il 28 maggio 1944 del capitano italiano Umberto Pittali viene detto che “ufficiali francesi lasciano ai marocchini una discreta libertà di azione” e “preferiscono ignorare” quanto accade. Secondo un testo
Don Alfredo Salulini nel suo libro Le mie memorie del tempo di guerra (1992, Casamari, Tipolitografia dell'Abbazia), racconto autobiografico, cita un episodio di una giovane ragazza di appena 16 anni tenuta prigioniera in un casolare di campagna all'inizio di Vallecorsa e costretta a subire violenza carnale da un intero plotone di goumiers (anche soldati francesi che si nascondevano tra loro), morta dopo una settimana di violenze.
<<A S. Andrea, i marocchini stuprarono 30 donne e due uomini; a Vallemaio due sorelle dovettero soddisfare un plotone di 200 goumiers; 300 di questi invece, abusarono di una sessantenne. A Esperia furono 700 le donne violate su una popolazione di 2.500 abitanti, con 400 denunce presentate. Anche il parroco, don Alberto Terrilli, nel tentativo di difendere due ragazze, venne legato a un albero e stuprato per una notte intera. Morirà due anni dopo per le lacerazioni interne riportate. A Pico, una ragazza venne crocifissa con la sorella. Dopo la violenza di gruppo, verrà ammazzata. A Polleca si toccò l’apice della bestialità. Luciano Garibaldi scrive che dai reparti marocchini del gen. Guillaume furono stuprate bambine e anziane; gli uomini che reagirono furono sodomizzati, uccisi a raffiche di mitra, evirati o impalati vivi. Una testimonianza, da un verbale dell’epoca, descrive la loro modalità tipica: “I soldati marocchini che avevano bussato alla porta e che non venne aperta, abbattuta la porta stessa, colpivano la Rocca con il calcio del moschetto alla testa facendola cadere a terra priva di sensi, quindi veniva trasportata di peso a circa 30 metri dalla casa e violentata mentre il padre, da altri militari, veniva trascinato, malmenato e legato a un albero. Gli astanti terrorizzati non potettero arrecare nessun aiuto alla ragazza e al genitore in quanto un soldato rimase di guardia con il moschetto puntato sugli stessi”
Il 18 giugno del 1944 papa Pio XII sollecitò Charles de Gaulle a prendere provvedimenti per questa situazione. Ne ricevette una risposta accorata e al tempo stesso irata nei confronti del generale Guillaume. Ancora, il cardinale francese Tisserant rivolse una lamentela al generale Juin, che rispose che "si era provveduto alla fucilazione di 15 militari, accusati di stupri, colti sul fatto, mentre altri 54, colpevoli di violenze varie e omicidi, erano stati condannati a diverse pene compresi i lavori forzati a vita"[12]. Entrò quindi in scena la magistratura francese, che fino al 1945 avviò 160 procedimenti giudiziari nei confronti di 360 individui. I reparti coloniali vennero alla fine ritirati e la 2ª divisione marocchina venne reimpiegata sul fronte tedesco, nella Foresta Nera e a Freudenstadt, nell'aprile del 1945, dove accaddero ancora episodi di stupri e rapine.
Per quanto l'originale sia introvabile, si conosce la traduzione di un volantino in francese e arabo che sarebbe circolato tra i goumier:
La storia del volantino, tuttavia, potrebbe essere stata solo una storia messa in giro per far ricadere la colpa dell'intera vicenda sul generale Juin. Con l'accettazione dell'esistenza di questo volantino (della cui reale esistenza non esistono prove), infatti, si nega la possibilità che questo fenomeno abbia interessato mezza Italia.
Un'ulteriore prova che questo fenomeno non fosse circoscritto alle 50 ore di cui parlerebbe il volantino sarebbe la presenza di moduli prestampati per denunciare le violenze effettuate dai marocchini.
Anche se si nega l'esistenza del volantino, tuttavia, l'acquiescenza di comandanti ed ufficiali ed il carattere sistematico delle violenze hanno portato a definire l'idea di una libertà di azione concessa ai soldati nei confronti dei civili. Ai soldati marocchini, cioè, sarebbe stato concesso il diritto di preda.
Una nota del 25 giugno del 1944 del comando generale dell'Arma dei Carabinieri dell'Italia liberata alla Presidenza del Consiglio, segnalerebbe nei comuni di Giuliano di Roma, Patrica, Ceccano, Supino, Morolo, e Sgurgola, in soli tre giorni (dal 2 al 5 giugno 1944, giorni della liberazione di Roma), 418 violenze sessuali, di cui 3 su uomini, 29 omicidi, e 517 furti.
Numerosi stupri si sono verificati anche nei comuni di Latina, Lenola, Campodimele, Fondi, Formia, Sabaudia, San Felice Circeo, Sezze, Cori, Norma, Roccagorga, Latina, Maenza, Prossedi, Spigno Saturnia, Frosinone, Ceccano, Giuliano di Roma, Vallecorsa, Castro dei Volsci, Villa Santo Stefano, Amaseno, Esperia, Supino, Pofi, Pratica, Pastena, Pico, Pontecorvo.
Le stime ammonterebbero a circa 3.100 casi, come riportato in una inchiesta italiana sottostimata per difetto fino ai dati probabilmente inverosimili delle 50.000 denunce presentate entro la fine del conflitto.
Nella seduta notturna della Camera del 7 aprile 1952 la deputata del PCI Maria Maddalena Rossi (presidente dell'UDI) denunciò che solo nella provincia di Frosinone vi erano state 60.000 violenze da parte delle truppe "Magrebine" del generale Alphonse Juin. Al convegno "Eroi e vittime del '44: una memoria rimossa" tenutasi a Castro dei Volsci il 15 ottobre 2011, il Presidente dell'Associazione Nazionale Vittime delle "Marocchinate" Emiliano Ciotti fa una stima dello stupro di massa:
Queste violenze non vennero compiute solo in questa zona dell'Italia: il fenomeno sarebbe iniziato già dal luglio 1943 dopo lo sbarco alleato in Sicilia, proseguendo poi nel resto della penisola. Si sarebbe arrestato solo nell'ottobre del '44 alle porte di Firenze, quando il corpo di spedizione francese fu trasferito in Provenza.
In Sicilia, i goumier avrebbero avuto scontri molto accesi con la popolazione per questo motivo: si parla del ritrovamento di alcuni goumier uccisi con i genitali tagliati (secondo alcuni un chiaro segnale). La violenza era su donne e uomini, ma soprattutto su donne, per cui i siciliani, oltre a nascondere le donne in rifugi naturali o artificiali come grotte o pozzi, in diversi casi reagirono come a Capizzi, dove una quindicina di marocchini vennero uccisi con l'acquiescenza delle autorità militari alleate; in altri casi gli autori degli stupri vennero uccisi a roncolate o evirati, dilaniati e dati in pasto ai maiali.
Anche nella Germania meridionale i goumier si abbandonarono a violenze e stupri di gruppo ai danni della popolazione. Secondo Norman Naimark, storico statunitense, le truppe marocchine integrate nell'esercito francese occupante dimostrarono comportamenti simili a quelli dell'Armata Rossa, specialmente durante l'occupazione del Baden e del Württemberg.
Con il termine marocchinate vengono generalmente definiti tutti gli episodi di violenza sessuale e violenza fisica di massa, ai danni di svariate migliaia di individui di ambo i sessi e di tutte le età (ma soprattutto di donne) effettuati dai goumier francesi inquadrati nel Corpo di spedizione francese in Italia (Corps expéditionnaire français en Italie - CEF) durante la campagna d'Italia della seconda guerra mondiale. Questi episodi di violenza sfociavano a volte anche in esecuzioni coatte degli abitanti delle zone sottoposte a razzia e violenza, e raggiunsero l'apice durante i giorni immediatamente successivi l'operazione Diadem e lo sfondamento della linea Gustav da parte degli Alleati.
«Tutte le donne di Patrica, Pofi, Isoletta, Supino, e Morolo sono state violentate... A Lenola il 21 maggio hanno stuprato cinquanta donne, e siccome non ce n'erano abbastanza per tutti hanno violentato anche i bambini e i vecchi. I marocchini di solito aggrediscono le donne in due - uno ha un rapporto normale, mentre l'altro la sodomizza.»(Norman Lewis nel libro Napoli '44)
«Addirittura c’è tra loro chi non ha paura di parlare di vero e proprio “diritto di preda” per i reparti marocchini[11].»
«Soldati! Questa volta non è solo la libertà delle vostre terre che vi offro se vincerete questa battaglia. Alle spalle del nemico vi sono donne, case, c'è un vino tra i migliori del mondo, c'è dell'oro. Tutto ciò sarà vostro se vincerete. Dovrete uccidere i tedeschi fino all’ultimo uomo e passare ad ogni costo. Quello che vi ho detto e promesso mantengo. Per cinquanta ore sarete i padroni assoluti di ciò che troverete al di là del nemico. Nessuno vi punirà per ciò che farete, nessuno vi chiederà conto di ciò che prenderete»
«Dalle numerose documentazioni raccolte oggi possiamo affermare che ci furono un minimo di 20.000 casi accertati di violenze, numero che comunque non rispecchia la verità; diversi referti medici dell'epoca riferirono che un terzo delle donne violentate, sia per vergogna o pudore, preferì non denunciare. Facendo una valutazione complessiva delle violenze commesse dal "Corpo di Spedizione Francese", che iniziò le proprie attività in Sicilia e le terminò alle porte di Firenze, possiamo affermare con certezza che ci fu un minimo di 60.000 donne stuprate, e ben 180.000 violenze carnali. I soldati magrebini mediamente stupravano in gruppi da 2 (due) o 3 (tre), ma abbiamo raccolto testimonianze di donne violentate anche da 100, 200 e 300 magrebini»
«Dato il coinvolgimento di sottufficiali e ufficiali bianchi, alcuni dei quali italofoni in quanto corsi, non presenti nei reparti di truppa goumier, si può affermare che i violentatori si annidavano in tutte e quattro le divisioni del Cef. Forse anche per questo, gli ufficiali francesi non risposero ad alcuna sollecitazione da parte delle vittime e assistettero impassibili all’operato dei loro uomini. Come riportano le testimonianze, quando i civili si presentavano a denunciare le violenze, gli ufficiali si stringevano nelle spalle e li liquidavano con un sorrisetto”. Questo atteggiamento perdurò fino all’arrivo in Toscana del Cef. Qui ricominciarono le violenze a Siena, ad Abbadia S. Salvatore, Radicofani, Murlo, Strove, Poggibonsi, Elsa, S. Quirico d’Orcia, Colle Val d’Elsa. Perfino membri della Resistenza dovettero subire gli abusi. Come testimonia il partigiano rosso Enzo Nizza: ”Ad Abbadia contammo ben sessanta vittime di truci violenze, avvenute sotto gli occhi dei loro familiari. Una delle vittime fu la compagna Lidia, la nostra staffetta. Anche il compagno Paolo, avvicinato con una scusa, fu poi violentato da sette marocchini. I comandi francesi, alle nostre proteste, risposero che era tradizione delle loro truppe coloniali ricevere un simile premio dopo una difficile battaglia”.»
«Era giunta l’ora di resistere; era giunta l’ora di essere uomini: di morire da uomini per vivere da uomini» P. Calamandrei
presso Cgil Patronato Inca Via Cerveteri, 2/a, 04100 Latina LT
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